Gesù di Nazareth fu influenzato dal Buddhismo?

written by redazione

 

Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi stessi. (Buddha Shakyamuni)

Come volete che gli uomini facciano a voi, così fate a loro. (Gesù di Nazareth – Luca 6:31)
 

Diffusione del Buddhismo ai tempi di Gesù

Le notizie sulla diffusione del Buddhismo antico offrono un quadro abbastanza sorprendente.

Occorre premettere che già ai tempi delle conquiste di Alessandro il Grande si venne a creare un ponte culturale fra oriente e occidente che pose le premesse per la futura circolazione di idee, oltre che di tessuti, arte, spezie e quant’altro.

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Non a caso, ad esempio, nell’odierno Afghanistan sorgevano fino a poco tempo fa delle immense statue del Buddha, purtroppo fatte demolire sulla spinta del fanatismo iconoclasta dei Talebani. Tali statue rappresentavano una delle varie testimonianze dell’antica diffusione del Buddhismo, dovuta sia ai Greci e Macedoni che ritornavano dall’India, ma soprattutto alle “missioni” proselitiste del Re Asoka, giunte fino ad Antiochia, Alessandria e Macedonia.

Quindi, 200 anni prima di Gesù, il Buddhismo era già presente anche ad Antiochia di Siria, cosa che rende quantomeno possibile che Gesù abbia avuto la possibilità di entrare in contatto con persone di tale formazione e magari studiare e trarre ispirazione dalla via del Buddha.

NOTA
Il Re Asoka, della dinastia Maurya, per la sua efficacia nell’affermazione del buddismo, fu chiamato “colui che, per secondo, mise in moto la Ruota della Legge”. Da setta polemica e riformatrice del brahmanesimo, con Asoka il neonato Buddhismo indiano divenne perciò religione universalistica basata sulla pratica delle virtù naturali: amore per la vita, devozione verso i genitori, gli anziani e i maestri, amore per la verità e rifiuto assoluto della violenza. Sotto Asoka, i funzionari provinciali istruivano la popolazione nel Dharma e i missionari esportavano la dottrina nello Sri Lanka, in Egitto, a Cirene, nell’Epiro, in Siria e in Macedonia. Grazie al suo senso religioso della vita e allo spirito di fratellanza per tutti gli uomini, probabilmente Asoka è stato il primo al mondo a realizzare una forma di proselitismo universale.

Molti Autori, di fronte all’evidente somiglianza fra i concetti presenti nella predicazione di Gesù e il Dharma, hanno addirittura ipotizzato un viaggio in India da parte di Gesù, magari durante i lunghi anni che hanno preceduto la sua missione e di cui i vangeli non danno alcuna notizia.

Tuttavia, come abbiamo appena constatato, la possibilità di incontrare il Buddhismo nella Palestina di 2000 anni fa o quantomeno nelle zone immediatamente circostanti era assolutamente possibile, anche senza dover fare lunghi viaggi.
 

Un grande innovatore

Chi era Gesù? Alla luce dei risultati della ricerca storica moderna, fondata sullo studio oggettivo di tutte le fonti disponibili, possiamo affermare che Gesù è stato un grande riformatore del Giudaismo.

Un rivoluzionario, più che un semplice riformatore, perché ribaltò completamente la mentalità dell’epoca: il Giudaismo era infatti una religione tipicamente nazionalista, legalista e autoritaria, mentre l’insegnamento di Gesù era assolutamente soggettivo ed individuale.

Nel Giudaismo fare il bene era un dovere da compiere sotto la spinta di minacce anche fisiche, oltre che morali. Per Gesù fare del bene “fa bene” innanzitutto a chi lo fa. Un concetto di evidente ispirazione buddhista, in un mondo dove qualsiasi religione (come anche avviene a tutt’oggi) fa leva su premi e punizioni, e non su una esigenza interiore.

Ai tempi di Gesù la religione dei Giudei era essenzialmente legalista e giuridica, fatta di tradizioni e regole, osservanza di rituali e festività, adempimento letterale di comandamenti, innumerevoli divieti piuttosto che esortazioni positive, prescrizioni inerenti i cibi puri e impuri, digiuni, insomma si trattava di pratiche fondamentalmente esteriori che poco o nulla avevano a che fare con la sfera interiore degli individui, anzi, il concetto stesso di individuo era quasi inesistente, schiacciato dall’obbligo morale di doversi sentire collettivamente “popolo di Dio” in modo massificato e compatto.

Gesù capovolse questa prospettiva introducendo un elemento assolutamente nuovo: l’amore incondizionato per il prossimo e addirittura per i nemici diventava il basilare paradigma che sostituiva la cieca osservanza della Legge.

Possiamo già notare che l’amore di cui ci parla Gesù ci ricorda molto di più la benevolenza buddhista piuttosto che la carità cristiana, perchè Gesù più che “promuovere la beneficenza per tranquillizzare la coscienza” intende far scoprire che questo amore porta beneficio più a noi stessi che ai destinatari di questo amore, perché ci trasforma dentro, ci fa scoprire che c’è più gioia nel dare che ricevere, ci aiuta a liberarci dalla nostra istintiva avidità. Tutti concetti molto vicini al buddhismo, guarda caso.

L’insegnamento di Gesù di Nazareth trascendeva gli stessi confini confessionali giudaici per divenire messaggio universale, non strettamente religioso ma anche filosofico, proprio come il buddhismo, volto a risvegliare le coscienze ad un modo nuovo e diverso di vedere sé stessi e gli altri, la vita e la morte.

Che Gesù fosse aperto a contributi culturali eterogenei rispetto alla stretta osservanza giudaica è anche documentato dalle corrispondenze fra l’insegnamento di Gesù e quello degli Esseni, una comunità molto particolare, interessata a fuggire dalle “vanità” della vita in modo quasi monastico. Del resto sono ben note le forti divergenze di idee fra Gesù e i Farisei, ovvero i Giudei più “fondamentalisti” di quall’epoca, anche se l’uso di tale termine è ovviamente anacronistico.

L’atteggiamento aperto e tendenzialmente favorevole di Gesù nei confronti di quelli che potremo definire, con un altro anacronismo, i movimenti d’avanguardia del suo tempo, ci fa ritenere che egli non avrebbe certo avuto pregiudizi nel conoscere e fare proprie filosofie e dottrine anche molto diverse dalla sua estrazione religiosa tradizionale.
 

La divinizzazione di Gesù

Se Gesù non fosse stato presentato in modo simile ad Eracle (Ercole), cioè come un essere semidivino, figlio di un Dio e di una terrestre, eroe vittorioso sul male dopo aver affrontato varie fatiche e prove, la diffusione della religione cristiana non avrebbe potuto avere quel successo popolare che invece ottenne, più fuori che dentro la Palestina, proprio perché essa era immediatamente riconoscibile e familiare per tutte le genti pagane, ma sarebbe rimasta ciò che era inizialmente, ovvero nient’altro che una sètta interna dell’ebraismo (ovvero la Sètta dei Nazareni così chiamata anche negli Atti degli Apostoli cap. 24) o si sarebbe estinta del tutto.

Gesù stesso si definiva un Rabbi, un Maestro, non certo un essere soprannaturale. Le leggende sulla sua origine divina e sul presunto concepimento miracoloso sono molto tardive, essendo state elaborate solo quando il Cristianesimo cominciava a diffondersi al di fuori del contesto ebraico.

Fu soprattutto san Paolo, “l’apostolo delle genti”, a intuire che per favorire la diffusione del Cristianesimo occorreva, paradossalmente, “svuotare” la nuova religione dall’insegnamento vero e proprio di Gesù, per “riempirla” con il culto della sua persona, del suo corpo e del suo sangue, a cui si aggiunse, in seguito, perfino il suo cuore.

Fu così che il maestro Gesù di Nazareth divenne “il Cristo”, da adorare, da invocare, da utilizzare come protettore e mediatore nei confronti della severa divinità, finalmente placata dalla morte di Gesù, reinterpretata da san Paolo quale “sacrificio espiatorio” per le colpe dell’umanità.

Perché un simile sacrificio doveva avere un così grande valore? Perché Gesù non era un uomo “normale”, secondo la nascente apologia cristiana, ma un semidio, figlio del Dio degli ebrei e di una terrestre, ovviamente vergine, come tutte le madri di tutti gli esseri semidivini mediterranei.

Per i pagani di cultura greca e romana, ma anche per tutte le religioni primitive, le divinità erano interpretate come tendenzialmente ostili e vendicative, e dovevano essere pertanto “propiziate” da sacrifici di animali in modo che l’aggressività del dio fosse “saziata” e quindi “disinnescata”, almeno temporaneamente.

Dato che Gesù fu condannato a morte, oltretutto come sovversivo e agitatore di disordini, ciò aveva seriamente compromesso la sua reputazione, perché sia ebrei che pagani ritenevano che chi avesse il favore della divinità doveva, al contrario, essere immune da sventure e protetto da ogni pericolo.

Infatti, il movimento di Gesù, dopo la sua morte, era allo sbando. I Vangeli descrivono gli stessi apostoli come scoraggiati e demotivati. Un primo tentativo di “rilanciare” l’entusiasmo tra i seguaci di Gesù fu la diffusione del mito della sua presunta resurrezione, sebbene in molte varianti contraddittorie, tutte riportate nei vangeli, compresa la variante più posteriore, quella che fa seguire la resurrezione dall’ascensione fisica in cielo. Nient’altro che miti ebraici, che ai pagani non dicevano nulla, infatti negli Atti degli apostoli leggiamo che i greci dileggiarono l’ipotesi della resurrezione fisica di un morto (Atti 17).

Ciò che “salvò” il movimento di Gesù dalla probabile estinzione che avrebbe avuto entro pochi anni dalla sua morte non fu quindi il mito della resurrezione, né la predicazione degli apostoli, che non produsse alcun risultato fuori dal ristretto ambiente palestinese, ma fu la genialità di Paolo, che reinterpretando la crocifissione come “sacrificio espiatorio” NON per i soli ebrei ma per tutta l’umanità, rese internazionale la nuova religione perché, come si diceva, l’idea di un sacrificio espiatorio era immediatamente comprensibile in quanto archetipo universale.

Ciò avvenne non senza aspre polemiche con la chiesa “ufficiale” dell’epoca, ovvero quella di Gerusalemme, gestita dagli stessi apostoli, che al contrario di Paolo ritenevano il “cristianesimo” (anche se non si chiamava ancora così) nient’altro che un modo nuovo di intendere la religione ebraica.

Infatti, per molti anni nella primitiva chiesa cristiana l’ala cosiddetta “giudaizzante” riteneva che se un pagano voleva seguire l’insegnamento di Cristo, doveva farsi circoncidere, e diventare ebreo d’adozione.

Paolo vedeva in questa regola un grosso limite all’espansione delle “sue” chiese, ovvero quelle che si trovavano in area greca, e del suo ruolo piuttosto ambizioso di “apostolo delle genti” e si ribellò fermamente a Pietro, da lui considerato ipocrita perché si faceva influenzare da coloro che Paolo chiamava con disprezzo “quelli della circoncisione” (l’episodio è descritto nell’epistola di Paolo ai Galati, cap. 2)

NOTA

I pagani non potevano accettare il culto di un uomo “qualsiasi”, doveva quantomeno avere una qualche “parentela” con un dio. Perciò la Chiesa del primo secolo ha dovuto “provvedere” aggiungendo al Vangelo di Matteo e di Luca il racconto leggendario della nascita da una Vergine, come la mitologia greca esigeva.

Di tale racconto non c’e’ traccia nei Vangeli di Giovanni e di Marco, nonché in alcun’altra parte del Nuovo Testamento.

Negli stessi vangeli di Matteo e di Luca il racconto della nascita miracolosa è aggiunto posteriormente, con un diverso stile letterario. Chiunque può infatti constatare, anche da una semplice lettura, che il vero inizio del Vangelo di Matteo si trova al capitolo 3.
 

Gesù si occupa dell’interiorità dell’uomo

Si noti che Gesù non ha mai presentato una visione della sfera spirituale di tipo mercanteggiante, ovvero finalizzata a presunti benefici da realizzarsi nell’aldilà. Gesù è sempre concentrato sull’interiorità dell’uomo, sul suo essere qui-ed-ora, sulla mente.

A coloro che venivano guariti Gesù diceva: “la tua fede ti ha salvato”. Dunque: “la tua mente”. Nessun intervento magico o miracolistico, semplicemente Gesù riteneva che la nostra mente può “spostare le montagne”. Non la religione, non i riti né i sacrifici, e nemmeno Dio, ma la nostra fede, che potremo definire la “retta intenzione” della nostra mente. Come si vede si tratta di concetti paragonabili a quelli che troviamo nel Buddhismo.

Nel messaggio di Gesù ci sono molte altre cose che ricordano molto di più il Buddhismo piuttosto che il Cristianesimo storico, perlomeno così come lo conosciamo attraverso le Religioni che si richiamano ad esso.

Basti pensare all’immensa profondità del significato di frasi come “chi vuole salvare la sua vita la perderà” (ma questa non è l’essenza del Nobile Ottuplice sentiero? Non è rinunciando all’attaccamento che si apre la strada tracciata dalle Quattro Nobili Verità per liberarsi dalla sofferenza?).

Interessante è anche il Sermone sul Monte, dove troviamo l’invito a rinunciare al proprio Io come mezzo di liberazione dalla logica competitiva del possesso.

Gesù sembra un Maestro Zen quando distrugge ogni parametro logico voluto dal pensiero umano: “molti ultimi diverranno primi, e molti primi ultimi”.

Che dire poi della sua esortazione a non essere ansiosi per il domani, ma di vivere il presente con fiducia ed ottimismo?

Anche alcuni episodi della vita di Gesù presentano similitudini con la vita di Siddharta Shakyamuni. Ad esempio, quando si recava nel deserto per digiunare, meditare e per superare vittoriosamente le tentazioni, Gesù stava praticamente ripercorrendo la stessa via che il Buddha praticò 500 anni prima.

Le meditazioni di Gesù condussero a delle conclusioni molto simili ai temi fondamentali del Buddhismo: la condizione umana richiede di essere riscattata, “salvata”, dal proprio stato di sofferenza attraverso un cammino di illuminata comprensione e consapevolezza.

Sia Gesù che il Buddha saranno chiamati “Luce del Mondo”.
 

Non importa “cosa” si crede ma “come”

Si potrebbe certamente osservare che Gesù, da bravo ebreo, fa costantemente riferimento al concetto di Dio.
Tale riferimento monoteistico non è certamente molto “buddhista”.

Tuttavia possiamo osservare alcuni elementi interessanti:

Innanzitutto, Gesù non teorizza un “intervento” divino nella sfera umana, ma l’uomo resta “solo” con le sue responsabilità, con le sue possibilità, con gli effetti del suo agire (verrebbe da dire: col suo karma).

Quando Gesù prese posizione su una catastrofe che accadde in quel periodo (chissà perché ma questo è uno degli episodi dei vangeli meno conosciuti) ovvero il crollo di una torre di Siloe, che uccise 18 persone, non disse che si trattava di una “punizione divina”, ma un semplice accadimento che non doveva essere strumentalizzato per ricavarne alcun principio (Luca 13).

Egli affermò tuttavia (molto “buddhisticamente”) che sia chi muore in simili incidenti sia chi sopravvive, si trovano esattamente nella stessa condizione, perché il vero bene per dell’uomo non è “sopravvivere alla morte” ma “convertirsi”, ovvero ricercare quella trasformazione interiore senza la quale non c’è molta differenza qualitativa tra vivere, sopravvivere o morire.

Si noti che Gesù quando affronta tematiche esistenziali non bada a concetti religiosi tipo “andare in paradiso” o “all’inferno”. Gesù non minaccia né promette, come un vero Maestro “buddhista” è concentrato sul qui-ed-ora, sull’esistenza umana, sui bisogni vissuti, non su ipotesi metafisiche.

In pratica, sebbene Gesù si trovi in un contesto ebraico abituato a schemi profondamente monoteisti, si può osservare che nel suo insegnamento il concetto di Dio è più “teologico” che metafisico. Una metafora che aiuta a capire, non una dottrina da credere o imparare.

E’ possibile ipotizzare una interpretazione non-monoteista e soprattutto non-teista dell’insegnamento di Gesù. Infatti, nessun discorso puramente fideistico trova spazio nei detti di Gesù.

Il punto di riferimento della fede da lui proposta non è “ciò che si crede”, non è una mera accettazione di concetti religiosi, quanto piuttosto la “retta intenzione” della mente.

Infatti, al capitolo 25 del vangelo di Matteo, subito prima del racconto del processo e della condanna a morte di Gesù, troviamo quello che potremo definire il suo “testamento spirituale”, ovvero la stupenda parabola dei “giusti”, a cui viene detto: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, ecc. E i giusti risposero: quando mai t’abbiamo veduto aver fame? O aver sete? Al che viene loro detto che non conta COSA si crede, o a CHI si crede, né se si crede o no, ma il vero valore sta nell’intenzione del cuore.

Dunque Gesù ci parla di una fede senza fede religiosa, una fede non basata su ciò che si crede, una fede vera, vissuta, fatta di sentimenti interiori, e al tempo stesso concreta.

Una fede non interessata e non preoccupata di contenuti astratti, ma ben tangibili: “ebbi fame e mi deste da mangiare”. Chi è l’affamato? Non importa: può essere chiunque!

Una fede che ci converte e ci illumina sulla base delle rette intenzioni, del retto pensiero, del retto sforzo, della retta vita, della retta azione.

Una fede “buddhista”!
 

La leggenda dei Magi d’Oriente

Uno dei racconti più misteriosi dei Vangeli, e al tempo stesso fra i meno spiegati dalle Chiese Cristiane, è il famoso episodio che descrive dei misteriosi personaggi, i cosiddetti Magi d’Oriente, venuti a venerare Gesù, riconoscendolo come un essere veramente speciale (il racconto si trova nel capitolo 2 del Vangelo di Matteo).

E’ senz’altro molto atipico che nei Vangeli, che non dimentichiamolo, sono scritti da Ebrei, si parli in modo positivo e profetico di figure religiosamente e culturalmente estranee alla spiritualità di Israele.

Tra l’altro, gli astronomi non hanno mai trovato alcun riscontro alla “stella” di cui si parla.

Del resto, già da una semplice lettura del testo si evince che non può trattarsi di una stella nel senso astronomico del termine, e tantomeno di una cometa come la fantasia popolare avrebbe poi interpretato. Questo perché tali oggetti, ovviamente, non possono certo “fermarsi” sopra le case, come afferma Matteo, e quindi è ovvio che si tratta di un racconto simbolico.

Ma simbolo di che cosa?

Una stella, evidentemente, brilla, è dunque simbolo di luce, certamente si tratta di luce spirituale, quella luce già visibile in Oriente, come affermano i Magi, che Gesù si appresta a diffondere in Occidente.

Chiaramente dobbiamo tenere conto che i Vangeli sono stati scritti a posteriori, ovvero dopo che Gesù aveva realizzato la sua missione. Probabilmente il racconto dei Magi è stato ideato ed inserito nei Vangeli per lasciare una traccia non esplicita ma ermetica, ma comprensibile solo a coloro che sono guidati da un qualche stato di illuminazione almeno parziale, del fatto che Gesù aveva tratto la sua ispirazione dalla “stella d’Oriente”, cioè dalla Luce che già da cinque secoli rischiarava il cammino dell’umanità: la Luce del Dharma buddhista.

Infatti, qualsiasi Buddhista riconoscerà immediatamente, nei famosi doni dei Magi, cioè l’oro, l’incenso e la mirra, i simboli dei Tre Gioielli: il Buddha, il Dharma, il Sangha. Attraverso questi doni, è come se Gesù ricevesse idealmente il mandato di diffondere in Occidente il prezioso insegnamento che conduce ogni essere alla buddhità, all’illuminazione.

Se gli insegnamenti originali di Gesù non fossero stati completamente distorti dall’esigenza di “paganizzare” ed “ellenizzare” il Cristianesimo per renderlo popolare ed accettabile dalle masse romane e romanizzate, certamente la “Luce d’Oriente” avrebbe potuto esercitare una influenza molto più evidente e marcata.

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